Prefazione

Nel marzo del 1921 i marinai, i soldati e la popolazione civile della base militare e della città di Kronštadt decisero che dopo tre anni e mezzo di governo del Partito comunista era divenuto necessario un cambiamento radicale. La repressione di ogni opposizione politica, la reintroduzione della pena di morte, della gerarchia militare e della disciplina di fabbrica, i sequestri dei raccolti ai contadini, lo spadroneggiare della Čeka e dei commissari politici, la fame – dalla quale sembravano salvarsi solo i funzionari di partito ­– avevano chiarito cosa intendessero fare i bolscevichi con il potere conquistato dopo la Rivoluzione d’ottobre. Kronštadt decise di metterli da parte per tornare a Soviet liberamente eletti, con il desiderio e la speranza che tutta la Russia seguisse il loro esempio.

Cosa volevano gli insorti? Le versioni sono almeno due. Per Lenin, Trockij, Zinov´ev e gli altri dirigenti bolscevichi si trattava di un tentativo di colpo di stato organizzato dal generale Kozlovskij, finanziato dai servizi segreti delle potenze straniere e sostenuto dai partiti moderati (socialisti rivoluzionari e menscevichi, innanzitutto) che avrebbe restituito il potere ai vecchi tiranni. Gli uomini di Kronštadt invece che, sempre in prima fila nel combattere le forze controrivoluzionarie e le armate bianche, erano stati protagonisti della Rivoluzione d’ottobre e di ogni tentativo insurrezionale (orgoglio e gloria della Rivoluzione russa, li aveva definiti Trockij nell’estate del 1917) scrissero a chiare lettere di voler combattere la dittatura comunista come avevano fatto con quella zarista, di esigere libertà di parola, di stampa e di associazione, posero il problema dei prigionieri politici, delle requisizioni, della libertà di lavoro. I capi comunisti sapevano che ciò non era compatibile con la loro permanenza al potere, e organizzarono in gran fretta una potente armata che dopo dieci giorni di assalti pose fine alla rivolta. Il massacro fu immane, durante e dopo la battaglia, ma ottomila persone riuscirono a salvarsi – grazie alla determinazione di chi, sicuro di andare incontro alla morte, restò a coprire loro le spalle – fuggendo in Finlandia. Alcuni di questi uomini provarono a spiegare al mondo come era stata condotta questa fallita III rivoluzione e così la propaganda bolscevica, nonostante il potente apparato che la sosteneva, non riuscì a ottenere sulla vicenda il coro unanime di assenso, o il silenzio, al quale anelava.

La pestifera Kronštadt da allora fu e resta una spina nel fianco dei bolscevichi e di tutti i loro eredi, tanto che un Trockij ormai sconfitto ed esiliato dai suoi ex compagni di partito, ebbe a scrivere: «La campagna sulla questione di Kronštadt si sviluppa con vigore in certi ambienti al punto di far credere che la rivolta di Kronštadt non si sia verificata diciassette anni fa, ma appena ieri.»

Di anni ne sono passati molti altri ancora, eppure ci sono persone per le quali la questione di Kronštadt non è affatto archiviata.


«Compagno Parczewski, ancora non siete stato arrestato?» - La straordinaria testimonianza di un “uomo ordinario”

Il testo che viene qui per la prima volta tradotto dal polacco è un prezioso resoconto degli avvenimenti che tra il 1917 e il 1921 riguardarono le fortezze e la cittadina di Kronštadt, ovvero i luoghi dove le esigenze dell’organizzazione bellica avevano involontariamente concentrato la base rivoluzionaria più radicale, inflessibile e determinata dell’intera Russia. Erano operai e contadini chiamati a vestire l’uniforme da marinaio o da soldato per difendere la capitale situata immediatamente alle loro spalle. Il “compagno Parczewski” non è uno di loro. Come loro è stato costretto dall’Impero zarista a indossare la divisa, ma non è un figlio di ex servi della gleba, né un proletario del tessuto industriale urbano e, soprattutto, non è affatto un rivoluzionario militante. Anzi, la lettura trasmette l’idea di un personaggio poco incline alle ideologie, ed è forse questa una delle caratteristiche più rilevanti del suo libro, che si sforza di assolvere all’impossibile compito di testimoniare in modo imparziale quanto fu da lui vissuto negli anni della rivoluzione, o meglio delle rivoluzioni russe.

La storia di Kronštadt è unica ed emblematica e a chi mi ha chiesto: «Ma davvero a qualcuno oggi può interessare quella vicenda?» – rispondo che ci sono accadimenti dei quali non possiamo smettere di occuparci, perché se di questi racconti non si prende carico chi ama la libertà prima di ogni altra cosa difficilmente si troveranno altri disposti a farlo.

Di fatto l’interesse dell’industria culturale per questo tassello fondamentale della storia dei movimenti rivoluzionari è stato modestissimo ed episodico cosicché al momento in libreria si trova al riguardo davvero poco. I motivi sono molteplici, ma senza dubbio l’atteggiamento degli storici è stato fortemente condizionato dalle connotazioni della cosiddetta III rivoluzione. Un’insurrezione che non poteva certo essere gradita agli storici di destra, poiché, come scrive correttamente Parczewski: «Kronštadt voleva essere più comunista dello stesso governo comunista». E non può piacere agli storici che simpatizzano per i bolscevichi, per i quali è la più scomoda delle sedizioni: arrivò infatti troppo tardi e allo stesso tempo troppo presto per farne passare inosservata la repressione. Troppo tardi perché nel 1921 ebbero sì luogo numerose rivolte contadine, ma la vera guerra civile era terminata, le armate bianche disperse e i generali controrivoluzionari in esilio o uccisi: chiamare in causa la reazione incombente che tutto può giustificare non era e non è verosimile.

Ma soprattutto troppo presto perché l’uomo che dopo il 1956 fu incoronato dai suoi successori gran capro espiatorio per ogni autoritarismo bolscevico non ebbe nulla a che fare con quegli eventi e non è possibile parlare di degenerazione stalinista nel 1921. Un regista come l’inglese Ken Loach ha potuto realizzare un film sulla Rivoluzione spagnola dove gli stalinisti sono i cattivi e i miliziani del Poum i buoni. Ma potrebbe, da trozkista qual è sempre stato, produrre qualcosa di simile sui fedeli seguaci di Bronstein che in nome della dittatura del proletariato si precipitarono a sterminare gli ostinati artefici di quell’intollerabile anomalia libertaria? E Vaneigem, che ha scritto una divertente Lettera di Stalin ai suoi figli riconciliati, scriverà mai una missiva agli odierni nipotini il cui mittente sia Lenin? Del povero Džugašvili si può ormai dire tutto il male del mondo, ma se parliamo di Trockij e, soprattutto, di Lenin, allora le cose sono diverse.

Ad esempio, in quello che al momento è il più recente tra i pochissimi volumi che l’editoria commerciale italiana abbia dedicato all’insurrezione del 1921, uno “storico” francese, Jean-Jacques Marie, ci fa trascorrere delle liete e spassose ore di lettura fornendoci una quantità di minuziosi dati estratti da recenti studi russi (che a loro volta hanno attinto alla torbida fonte degli archivi della Čeka) e cercando al contempo di convincerci del fatto che Lenin e Trockij furono tutto sommato costretti a quelle opinabili scelte dagli eventi e che in fondo non erano proprio loro a decidere. Non solo, lo “storico” tenta di farci intravedere con buffe acrobazie come dopotutto sarebbe preferibile prendersela con Stalin (che però in quel momento si trovava in Georgia a regolare i conti con i menscevichi del suo paese) e che poi questi insorti non erano così simpatici come ce li si vuole figurare da parte anarchica. Anzi, a guardar bene erano delle carognette pure loro, forse addirittura antisemiti. D’altronde, manco a dirlo, anche Marie è un trozkista, e la scelta di far scrivere a un fan del fu comandante supremo dell’Armata rossa una storia dei ribelli di Kronštadt è un po’ come decidere di commissionare una narrazione del massacro di Wounded Knee a John Wayne. Dell’edizione italiana di un altro testo su Kronštadt, questo davvero fondamentale, diremo poco oltre, ora torniamo al nostro testimone che definisce se stesso: «un uomo ordinario, che non ebbe un grande ruolo negli avvenimenti».

Al suo arrivo a Kronštadt nel 1912 Tomasz Parczewski (questo il nome polacco, in russo diventa Foma Jakovlevič Parčevskij) ha 32 anni e, dopo essersi dedicato a studi filosofici a Pietroburgo, si guadagna da vivere insegnando russo nelle scuole superiori, nella speranza di una carriera da docente universitario. Era originario di una famiglia polacca che viveva nei pressi di Mscislaŭ, oggi situata in Bielorussia, quasi al confine con la Federazione Russa. Al tempo tuttavia non c’era la Bielorussia, né la Federazione Russa e tantomeno esisteva la Polonia. Parczewski apparteneva a una delle tante minoranze che convivevano sui territori dello sterminato Impero russo ed ebbe la ventura di divenire, nel 1917, governatore russo e, dal 1919, cittadino di una nazione nemica. Dopo la rivoluzione infatti pezzi dell’impero come la Finlandia e la Polonia se ne separarono, spesso attraverso aspri conflitti. Il suo scritto può essere valutato correttamente solo tenendo presenti quali fossero le condizioni politiche della Polonia, paese in cui l’Autore si trovava al momento della realizzazione dell’opera. Grazie a un riferimento nel testo («Il rimorchiatore arrivò all’approdo davanti agli uffici dell’Accademia delle scienze. Le pesanti casse furono felicemente trasportate dall’equipaggio nei rifugi di cemento armato del nuovo palazzo della biblioteca dell’accademia, dove rimasero per 11 anni.») sappiamo che il libro è stato completato non prima del 1930 e non può essere posteriore al 1932 dato che in quell’anno Parczewski muore. Non è superfluo ricordare, vista la scarsa conoscenza che noi italiani abbiamo della storia polacca, che nel maggio del 1926 le forze armate fedeli a Piłsudski avevano preso il potere in Polonia con un colpo di stato che era costato oltre mille morti. Anche se la dittatura di Piłsudski non assunse del tutto le caratteristiche brutali dei regimi fascisti, già nel 1928 la polizia aveva scacciato i neoeletti deputati comunisti dal parlamento impedendo loro di prestare giuramento e così ponendosi completamente al di fuori delle regole della democrazia rappresentativa. Il 1930 è l’anno in cui il regime di Piłsudski divenne più intensamente repressivo verso gli oppositori politici e verso le minoranze, e per uno scrittore con i trascorsi di Parczewski era decisamente consigliabile sottolineare la sua appartenenza al popolo polacco e la totale estraneità a ogni schieramento politico. La sua prudenza è palese: si dichiara ex-simpatizzante di quel Partito socialista polacco del quale Piłsudski fu tra i massimi esponenti (la strada che portava dalle dirigenze dei partiti socialisti al trono del despota fu notevolmente affollata negli anni tra le due guerre mondiali). Inoltre il raggruppamento politico fondato nel 1928 da Piłsudski aveva preso il nome di BBWR, Bezpartyjny Blok Współpracy z Rządem, che viene tradotto in italiano generalmente con Blocco apartitico di cooperazione con il governo – ma Bezpartyjny è lo stesso termine con il quale Parczewski indica lo schieramento dei Senzapartito del quale faceva parte nel Soviet di Kronštadt. Il bisogno di giustificare il proprio operato si dispiega in un breve capitolo (La mia posizione politica) il quale, se non considerato nel contesto storico, appare forzato e fuori luogo.

Ancor più attento è l’Autore nel dimostrarsi ben distante dai gruppi più radicali – bolscevichi e anarchici sono quasi sempre guardati con ostilità e sarcasmo – tuttavia, anche se la sua avversione per gli estremismi è sincera, la sua impeccabile figura di moderato appare incrinata da alcuni dettagli. In primo luogo Parczewski spesso omette di riportare che mentre era membro del Soviet di Kronštadt furono lì approvate molte risoluzioni “estremiste” e che il suo ruolo per un certo periodo fu tutt’altro che di secondo piano, essendo uno degli uomini più rappresentativi del raggruppamento dei senzapartito. Inoltre i suoi buoni rapporti con i bolscevichi traspaiono da una frase che potrebbe, a una lettura distratta, passare del tutto inosservata. Riferendosi alla sua partenza definitiva dall’isola Parczewski infatti afferma: «Pochi giorni dopo, grazie a tutte le “raccomandazioni e conoscenze” che avevo nel Soviet, fu messo a mia disposizione, come favore eccezionale, un piccolissimo rimorchiatore per il trasporto della mia biblioteca». Siamo nel 1919, quando la bolscevizzazione del Soviet era ormai completa e ci si trovava nel pieno del terrore rosso scatenato in seguito agli eventi della guerra civile, quindi è evidente che le sue relazioni con i bolscevichi non erano così blande come intendeva far apparire.

Certamente Parczewski avrebbe preferito una rivoluzione meno drastica di quella che desideravano, e in parte realizzarono, i rivoluzionari di Kronštadt, quegli stessi che al vederlo libero – lui, rappresentante del governo Kerenskij – durante le Giornate di luglio del 1917, con meraviglia gli chiesero: «Compagno Parczewski, ancora non siete stato arrestato?»


«Durante la notte arrivarono degli emissari da Oranienbaum, e il terzo reggimento di fanteria uscì in strada senza gli ufficiali; al mattino uscì tutta la guarnigione.»

Parczewski non si definisce un rivoluzionario, ma dichiara: «nella rivoluzione russa vedevo in parte realizzati i miei sogni politici». Le sue parole sulla fine del regime zarista sono limpide: quella che osserva nei primissimi giorni del marzo 1917 è «una rivoluzione dal basso, non pianificata», in cui «non c’era direzione» e dove «i soldati erano insorti senza gli ufficiali e senza capi». Il rapporto dello scrittore con la storia che il destino gli fece attraversare e con le moltitudini che parteciparono a quel possente processo di distruzione e simultanea ricostruzione è contraddittorio. Verso le masse rivoluzionarie prova sentimenti alterni, separando nettamente la brava gente dai banditi e la sua valutazione della rivolta del 1921 oscilla dall’ammirazione per il coraggio dimostrato alla dura critica per un’azione a suo dire velleitaria e tecnicamente mal condotta. Ciò che Parczewski provava per quei tempi e quelle terre ormai lontane viene ben riassunto nella considerazione a proposito della ferma presa di posizione degli insorti che esclusero ogni rappresaglia verso i comunisti arrestati (nello stesso momento a Pietrogrado la Čeka era invece a caccia delle famiglie degli uomini che partecipavano alla rivolta): «da questo movimento emanava lo spirito russo che tutto perdona in nome della libertà.»

Ma non sempre la base rivoluzionaria aveva perdonato: nella notte del primo marzo 1917 e nei giorni successivi molti ufficiali furono uccisi, e se Parczewski non fu tra loro è perché, per citare le sue parole, non picchiava e non umiliava i suoi soldati. Benché l’Autore cerchi di difendere almeno parzialmente la categoria, si tratta di un tentativo inefficace. A Kronštadt prima della rivoluzione la violenza verso i militari di basso rango, i pugni in faccia dati dagli ufficiali ai marinai anche senza un pretesto minimo, erano all’ordine del giorno. Come scrive Parczewski: «l’esercito di Kronštadt era addestrato non tanto contro i tedeschi quanto a soffocare il movimento rivoluzionario che già tutti si aspettavano.»

Parczewski fu ufficiale per caso, l’unica appartenenza che riconosceva senza distinguo era quella verso il gruppo sociale dell’intellighenzia, ma stima e apprezzamento sono rivolti a singoli individui, mentre la categoria nel suo complesso è bersaglio di critiche feroci e commenti ironici. In definitiva l’unico settore sociale verso il quale l’Autore esprima sentimenti univoci è quello di guardie e gendarmi (che fossero quelli zaristi o i comunisti della Čeka, onnipresenti nella seconda parte del libro): a dimostrare che il buonsenso è meno mutevole delle ideologie, il disgusto privo di enfasi che palesa nei confronti di questi non dà adito a interpretazioni dubbie.

Per chi ha già una certa conoscenza della letteratura disponibile potrà essere di grande interesse come i racconti di Tomasz Parczewski risultino ben corrispondenti con altre testimonianze, anche se il punto di vista può essere diametralmente opposto. Personalmente ho trovato particolarmente istruttivo il confronto con l’anarchico Volin, che nel 1917 visitò di frequente Kronštadt, facendo parte della folta schiera di oratori-rivoluzionari che aveva indotto Parczewski a scrivere: «certo che a Kronštadt di visite e discorsi non si sentiva davvero la mancanza. Pareva di stare dentro un alveare.»

Desidero riportare un passaggio che può essere illuminante su come due uomini entrambi schietti ma diversissimi possano descrivere lo stesso pezzetto di storia.

Nel suo La rivoluzione sconosciuta Volin scrive:

Gli abitanti di Kronštadt utilizzarono il terreno vuoto fra le coste e la città propriamente detta per farvi sorgere degli orti collettivi, una specie di piccole comuni orticole.

Gruppi di cittadini, formati da una cinquantina di persone abitanti lo stesso quartiere o che lavoravano insieme, si mettevano d’accordo per lavorare la terra in comune. Ogni “comune”, riceveva dalla città un lotto di terreno, tirato a sorte. I “comunardi” erano aiutati da specialisti: agrimensori e agronomi.

Tutte le questioni generali, che interessavano i membri di queste comunità, erano discusse in riunioni di delegati o in assemblee generali.

Un comitato di approvvigionamento si occupava della fornitura delle semenze; gli attrezzi da lavoro erano prelevati dai depositi della città o forniti dagli stessi “comunardi”; il concime – solo fertilizzante disponibile – era fornito pure dalla città.

Questi “orti” resero agli abitanti di Kronštadt grandi servizi, soprattutto nei periodi di carestia, nel 1918 e più tardi; le comunità servirono, nello stesso tempo, a rendere più fraterni i rapporti tra gli abitanti stessi.

Questa “comunità libera” diede prova di grande vitalità; esisteva ancora nel 1921, e rimase per molto tempo la sola organizzazione indipendente che i bolscevichi non riuscirono a spezzare. (Trad. di Umberto Consiglio, Carrara 1976).


Parczewski fu tra coloro i quali coltivavano quei terreni e descrive il tutto con toni un po’ diversi:

A Kronštadt avemmo solo una facilitazione: ai sindacati, compreso il nostro, fu messa a disposizione la terra dei giardini pubblici. Coltivammo da noi questi terreni e in autunno raccogliemmo un po’ di patate, di verza e così via. Ma era poca cosa, ci bastò per un paio di mesi. Circa un mese prima che i prodotti della terra arrivassero a maturazione si faceva la guardia giorno e notte. Questo perché, anche se la proprietà privata era stata abolita, in tempi di fame gli estimatori della proprietà erano più attivi che mai. Il nostro terreno distava dalla città circa tre chilometri.

Com’era bello il cielo stellato in quelle notti, non mi stancavo mai di guardarlo. Mi sforzavo di stabilire un contatto telepatico con l’universo. Senza risultati, purtroppo. Però sentivo ugualmente qualcosa di cosmico dentro di me, mi sentivo cittadino non solo del globo terrestre ma anche dell’universo stellato.


Nota a proposito di questa traduzione

All’inizio degli anni ’90 ebbi la fortuna di imbattermi nel libro di Israel Getzler, che l’Einaudi aveva deciso di pubblicare con l’anodino titolo L’epopea di Kronštadt, il quale resta a mio parere un brillante esempio di come si dovrebbe realizzare una ricostruzione storica.

Molti anni prima, nell’adolescenza, un amico con qualche anno più di me mi aveva parlato di Kronštadt per sommi capi, ma a dire il vero non ci avevo capito molto. Ne avevo però, negli anni dell’università, testato il potere misterioso: sperimentai che dire «Kronštadt» a un marxista era come pronunciare una parola magica. I militanti del Pci erano imbarazzati, il partito non li aveva informati dell’esistenza di quella stupida isoletta che quindi a loro non risultava; gli autop, inferiori per organizzazione ma superiori per cultura politica, ne sapevano anch’essi quasi nulla e cercavano di evitare il discorso; altri leninisti si innervosivano e basta.

Il mio ricordo più vivido riguarda una militante della Lega socialista rivoluzionaria, una piccoletta che in assemblea con la sua bella voce squillante e la sua vivace oratoria era capace di mettere sotto il 99% dei maschi (sì, era un mondo maschilista). Al solito enunciato («tra voi e noi in questa fase storica non c’è alcuna differenza!» – diceva lei, dove voi stava per voi anarchici e noi voleva dire noi trozkisti) mi bastò rispondere – «Scusa e con Kronštadt come la mettiamo?» – e subito comparve una smorfia che oggi voglio chiamare sorriso, seguita dalla laconica risposta: «Se ne può parlare…»

Inutile dire che non parlammo mai più di niente.

L’epopea di Kronštadt mi diede l’occasione di desistere dall’utilizzo della parola magica in quanto tale e di comprendere il perché di tanto imbarazzo. Israel Getzler era nato nel 1920 a Berlino in una famiglia di ebrei polacchi, deportati prima in Polonia dai tedeschi e poi, dai russi, in Siberia e sul Volga. Dopo la guerra era vissuto in Australia, studiando in Gran Bretagna e negli Usa, per trasferirsi infine in Israele, (Marie, con il chiaro intento di sminuirne l’opera, lo definisce “storico israeliano”). La conoscenza di lingue e culture diverse e le notevoli capacità di ricercatore gli permisero di scrivere un documentatissimo (per l’epoca, ad archivi sovietici ancora sigillati) lavoro che fu pubblicato nel 1983 come Kronstadt 1917-1921 – The Fate of a Soviet Democracy. La lettura di questo saggio fu per me rivelatrice, Getzler non era anarchico e non era comunista, piuttosto un “democratico puro”, il quale, sia detto per inciso, pur sentendosi profondamente legato al paese in cui è vissuto fino alla morte e del quale portava il nome, criticò sempre attivamente la politica del suo governo nei confronti dei palestinesi. Le sue valutazioni sugli eventi della rivoluzione russa sono quelle di uno storico appassionato e partigiano non di una fazione politica ma dei dati di fatto che con cautela potremmo chiamare verità storica.

L’unica cosa che mi lasciò perplesso all’epoca fu la strana avarizia nel descrivere compiutamente alcuni gruppi del Soviet di Kronštadt – in particolare i senzapartito, i socialrivoluzionari di sinistra e gli anarchici – che furono determinanti per tutti gli avvenimenti descritti. Per quasi venti anni ho suggerito la lettura di questo testo, sempre aggiungendo la precisazione che era purtroppo lacunoso in questo senso, senza riuscire a darmene una spiegazione soddisfacente. Nel 2011, cercando in rete materiale per fornire questo volume di note aggiornate che completassero (e, ove necessario, correggessero) la narrazione di Parczewski, ho scaricato l’edizione inglese che mai avevo avuto tra le mani e, più per pignoleria che per reale esigenza, ho cominciato a confrontare dei brani di cui mi interessava particolarmente il contenuto. Il dilemma che mi si era presentato si scioglieva nell’evidenza più banale: la traduzione italiana è monca. Alcuni passaggi (sei righe qui, una pagina e mezza là) nel volume Einaudi, semplicemente, non ci sono. Un’analisi dettagliata richiederà un po’ di tempo, ma dal brano che si può trovare tradotto nella nota a pag. xxx, si può avere il sospetto che alcune omissioni non siano casuali.


Kronštadt la pestifera colpisce ancora?

Può darsi ch’io sia un malpensante. Per verificarlo sono andato a vedere chi avesse tradotto il volume, e qui un’altra stranezza, infatti la dicitura riportata è: Copyright © 1982 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino - Traduzione di Franco Salvatorelli. Ma traduzione di quale libro e da quale lingua, non si sa. L’edizione inglese è del 1983, quindi posteriore di un anno: è questo forse il motivo per cui l’edizione italiana è mutila? L’uomo che poteva rispondere sarebbe stato certamente il traduttore ma purtroppo Salvatorelli dal 2008 non è più tra noi. Ho fatto diversi tentativi di contattare qualcuno che potesse essere informato della questione, niente da fare. Ho scritto anche al direttore dell’Einaudi che mi ha cortesemente risposto di non saperne nulla. Nel marzo 2012 sono finalmente riuscito a trovare l’indirizzo email di Israel Getzler, e gli ho scritto subito. Troppo tardi anche qui, Getzler se n’era andato, a quasi 92 anni, due mesi prima.

Ma possiamo davvero immaginare che l’Einaudi operasse una censura politica? Agli scettici va ricordato che nel 1954 la più fedele alla linea tra le case editrici aveva censurato addirittura Theodor Adorno il cui Minima Moralia, reo di scarsa ortodossia, fu amputato di oltre un quarto del testo originario. E quando 22 anni dopo Elvio Fachinelli volle pubblicare le sezioni tralasciate (Minima imMoralia – L’Erba Voglio) l’operazione editoriale fu oggetto di un’aggressione generalizzata da parte della stampa di sinistra. Chi si diede alla drastica potatura degli scritti del guru di Francoforte avrà avuto scrupoli a far dimagrire il saggio di uno storico di periferia di qualche decina di pagine?

Ma le mie sono in fondo solo illazioni – niente prove, nessun delitto.

Tra i molti meriti di Getzler c’è anche quello di aver disseppellito le memorie di Parczewski, le quali, stampate nel 1935, erano state nei decenni successivi completamente ignorate. Non ne fa menzione alcuna, ad esempio, l’ottimo saggio di Paul Avrich, ed era ovviamente impensabile che nella Polonia sovietizzata del dopoguerra un testo del genere potesse venire ristampato (ciò è accaduto solo negli ultimi anni). Getzler ne fece una delle principali fonti documentarie per i primi capitoli del suo volume e quando mi avvidi dell’esistenza di una testimonianza su Kronštadt in polacco mai tradotta pensai che si doveva riparare in qualche modo. Pur non conoscendo la lingua ho la fortuna di avere una madre nata e cresciuta a Varsavia, che parla perfettamente polacco e italiano e che riuscì a procurarsi in una biblioteca della sua città una fotocopia del libro sulla quale ha condotto questa traduzione. È stato necessario confrontarci e discutere a fondo il testo perché l’Autore in realtà aveva più padronanza del russo che della sua lingua originaria. Il testo polacco è pieno di moleste ripetizioni, di continue alternanze dalla narrazione al passato a quella al presente, ed è infarcito di russicismi (benché il curatore dell’edizione originale specifichi di averne già eliminato una buona parte) e di frasi in russo. Per un lettore polacco, vista l’affinità tra le lingue e la buona conoscenza che quasi tutti i polacchi hanno del russo, si tratta di un vezzo non troppo fastidioso (un po’ come quando Bonelli faceva dire al suo Tex Willer adios! oppure suerte!) ma in italiano avrebbe reso la lettura inutilmente faticosa. Di tutto ciò abbiamo deciso di lasciare appena qualche traccia, come nel caso dell’espressione pol´skij špion, che si intende alla perfezione anche nella nostra lingua.

Devo aggiungere che, come il lettore si accorgerà, Parczewski tentò di essere un fedele registratore di avvenimenti, ma a volte la sua memoria è imperfetta, altre volte non disponeva di informazioni che sono oggi accessibili. Consultando una gran mole di fonti ho cercato di completare la traduzione con delle note che sostenessero (o, nel caso, correggessero) alcune scarne affermazioni di Parczewski e ho deciso di corredare il libro di un’appendice con delle brevi biografie dei personaggi citati in modo da permettere a chi legge di orientarsi in quei tempi tumultuosi che imposero vite spericolate anche a chi magari ne avrebbe fatto a meno. Molte persone mi hanno aiutato in questo compito ma ogni errore è di mia esclusiva responsabilità.

Com’è evidente da quanto su scritto non avrei neanche potuto immaginare di ridare vita a questo libro sepolto dal tempo senza l’opera della traduttrice Alina Maria Adamczyk. Contributi essenziali sono stati quelli di Renzo Carlini e Margarita Petrova che grazie alla loro conoscenza del mondo russo e della sua lingua hanno apportato miglioramenti sostanziali e salvato le mie note e traslitterazioni da non pochi errori. La corretta grafia dei toponimi finlandesi è dovuta alla cortesia di Erkki Aitola.

Lucia Caporaso, Giancarlo Caratti, Rocco De Luca, Raimondo Di Maio, Agostino Manni e Paola Marangon mi hanno dato sostegno, suggerimenti, opinioni, libri, consigli e molto altro.

Infine voglio ringraziare Luciano Striani che oltre trent’anni fa mi parlò di una strana storia di marinai russi in rivolta, una storia che da allora non mi ha più abbandonato.


Giuseppe Aiello