Venne un’estate diversa dalle precedenti. Diversa, forse perché avevo raggiunto l’età per andare a scuola, o forse, ma questo allora non lo potevo sapere, perché il mondo degli adulti all’improvviso si riempiva di problemi e di pericoli la cui portata sfuggiva alla maggioranza delle persone. Alle Betulle non c’era l’elettricità ma i ragazzi avevano installato una radio a galena con una discreta ricezione, ma con l’inconveniente di poter ascoltare a turno, dato che i ricevitori erano applicati direttamente all’orecchio. In quella memorabile estate i ricevitori della radio non oziarono mai, passavano da una testa all’altra. Nei discorsi dei grandi risuonavano spesso nomi geografici stranieri, nomi di personaggi esotici e sconosciuti. Non che mi interessasse tutto ciò, ma percepivo una diffusa inquietudine.
Mia madre e mio fratello andarono sulla costa baltica a vedere il mare. Anch’io ero curiosa di vedere il mare e sarei andata volentieri con loro a Gdynia, ma nessuno me lo chiese. Al ritorno vennero alle Betulle per portarmi con loro a Varsavia. Ebbi in regalo una spilla d’ambra a forma di veliero; sfogliai un album di foto virate a seppia dal titolo Il nuovo porto polacco di Gdynia. Con grande agitazione mamma spiegava al nonno la situazione politica a Danzica, parlavano di manovre militari, di pericolo tedesco. Io continuavo a dispiacermi di non aver visto il mare e quella penisola dal nome grazioso e leggero: Hel. Mio fratello Jurek mi raccontò di una passeggiata con la barca a motore.
Tornammo a Varsavia, ero impaziente di andare finalmente a scuola. Negli anni precedenti avevo partecipato solo passivamente ai preparativi, perché a scuola ci andava solo Jurek. Tutta la famiglia andava alla vecchia chiesetta di legno per sentire la messa di apertura dell’anno scolastico. Bambini e ragazzi cantavano in coro gli inni sacri, i genitori contemplavano orgogliosamente il vanto della stirpe, il bastone della vecchiaia e il futuro della nazione in file disciplinate assieme alla prole degli altri genitori altrettanto fieri. Le mattinate settembrine fredde e nebbiose non toglievano a mio fratello l’entusiasmo con cui si affrontano i primi giorni di scuola. Aveva molte belle cose nella sua cartella di pelle marocchina, con libri e quaderni, un portapenne nuovo, matite colorate, una squadra, una gomma da cancellare, il diario e anche un panino col salame o col prosciutto.
Quell’anno, il primo settembre, invece dell’anno scolastico iniziò la guerra. La mia nuova uniforme blu con il collo alla marinara non fu inaugurata tra le file degli scolari che aspettano la benedizione dello Spirito Santo che illumina i cuori e le menti nostre – come recitava la preghiera d’inaugurazione scolastica.
I numerosi giardini suburbani, le piazzole, i campi incolti destinati a future abitazioni cittadine si coprirono di trincee scavate alla buona dalla popolazione civile. I tram usavano le luci blu, le finestre delle case vennero oscurate, nei sottotetti trovavano sistemazione accorgimenti antincendio: casse di sabbia, botti piene d’acqua, pale e badili.
A noi bambini fu data una mascherina di garza e ovatta che sarebbe dovuta presumibilmente servire da maschera antigas. Ognuno di noi aveva al collo, appeso con una fettuccia di cotone, un piccolissimo sacchetto con un pezzo di carta cucito dentro: l’atto di nascita.
«A cosa serve?» – domandai a mia madre.
«Se ti dovessi perdere e non ricordassi…»
«Ma io so come mi chiamo, dove abito e quanti anni ho.»
«Ma sì, sì. Questo è per ogni evenienza.»
Allora – pensai per la prima volta – è veramente guerra. E non solo posso perdermi ma posso anche morire e se mamma non sarà con me in quel momento sapranno a chi restituirmi. Ma tenni per me questi pensieri. A mia madre non risposi nulla.
La nostra vicina di casa sveniva durante ogni incursione aerea e anche questo mi turbava molto. Tutti la compativano perché suo marito era un soldato e lei aveva una figlioletta piccola e i nervi assai fragili. Alcuni mesi dopo le nacque un altro bambino ma il marito tornò dalla guerra soltanto cinque anni più tardi.
Mio padre in quei primissimi giorni di guerra non era con noi a Varsavia. Lavorava su treni a lunga percorrenza e con ogni probabilità in quei momenti doveva trovarsi ai confini con la Russia sovietica. Mia madre cercava di dare al tempo connotati di normalità, si sforzava di cucinare, ci diceva di mangiare, riposare, lavarci, ma i suoi sforzi non riuscivano nell’intento. A casa nostra veniva molta gente a me sconosciuta, si parlava e si discuteva animatamente. Sempre più spesso sentivo la frase: «Adesso sono veramente preoccupata».
Il sei settembre l’ennesimo bombardamento fece prendere a mia madre la decisione di portarci fuori città. Alla fine della strada dove abitavamo, a distanza di alcune centinaia di metri, tutto bruciava. Il nostro bagaglio, o per meglio dire il bagaglio di nostra madre, consisteva in due bambini, una cartella di cuoio e una pelliccia. Nella cartella aveva messo un po’ di biancheria, qualche golfino, un pugno di monete d’argento e alcune tavolette di ottimo cioccolato. Sulla pelle della schiena portava ancora i segni vistosi dei salassi fatti applicando delle coppette di vetro: era convalescente da una forte influenza.
Le istantanee di quel viaggio verso un luogo più sicuro – ma nessuno sapeva dove fosse un posto simile – si sono impresse nella mia memoria in modo indelebile. La stazione ferroviaria Varsavia sud era affollatissima. Quella sera partivano alcuni convogli, ormai davvero gli ultimi. La sala d’attesa era strapiena di gente dai visi stravolti, uomini in uniforme militare, valigie e cesti da viaggio. Eccitazione, chiasso, agitazione al parossismo. Un tè bollente e dei panini dolci consumati a tavolino: come sarà riuscita a procurarseli in quell’anticamera dell’inferno?
Al tavolino accanto al nostro allegri ufficiali bevevano vodka e ci domandavano dove eravamo diretti e che cosa speravamo di trovare altrove. Poi lunghissime ore, così mi sembrarono, passate nel buio assoluto del vagone privo d’aria e di luce, un intervallo indefinito, sonno, e poi scendemmo, ci trovavamo a Gròjec. Per un attimo, buio e freddo, immediatamente dopo una vivida luce rossa e un grande calore: una grossa costruzione, credo un mulino, era in fiamme. Fino a quel momento non mi ero mai trovata così vicino a un incendio.
Meta del nostro viaggio era la casa in campagna di zia Mania, sorella di mio padre, a Kozietuły, circa 55 chilometri a sud di Varsavia. Ci volevano da lì altri quindici chilometri di distanza e bisognava arrivarci a piedi. Ci mettemmo in marcia controcorrente, dato che da ovest arrivavano a migliaia, diretti verso la città con pacchi e valigie, carri e biciclette.
«Per Dio, dove andate? I tedeschi ci stanno alle calcagna, noi fuggiamo a Varsavia!»
«Io scappo da Varsavia, bombardano, ho i bambini piccoli…» – spiegava mia madre, incerta.
E così, più che andare, ci trascinavamo controcorrente, contro la logica, il più lontano possibile dal fuoco e dal tuono.
Arrivò un aereo che era già mattino. Trrrrrrrrrrrrrr, borbottava, sussultava. Mia madre con un veloce spintone ci scaraventò sotto i cespugli che fiancheggiavano la strada. L’aereo mitragliava lungo la carreggiata, la gente non fece in tempo a scappare. Qualcosa lì si aggrovigliava, qualcosa diventava immobile, non potevo vedere di che cosa si trattava, mamma ci schiacciava letteralmente con il proprio corpo.
Ancora in marcia, un po’ camminavamo e un po’ sostavamo nascosti. Incontravamo sempre meno gente. Dopo alcune ore eccoci nell’inferno. Non so come, mi trovai in fondo a un fosso lungo la strada di campagna su cui galoppavano i cavalli dell’esercito polacco in ritirata. Carri, cavalli sciolti, cucine da campo, i visi rossi stravolti dallo sforzo, i visi sporchi e neri di polvere, stanchezza, ira, paura, altri cavalli con le criniere al vento, sferzati senza ragione dato che già correvano per quanto le forze glielo permettessero. Avevo paura per loro, paura che i tedeschi potessero raggiungerli, uomini e cavalli.
Per la paura mi rifugiai tutta nella pelliccia di mia madre, calda e profumata, mi ficcai le dita nelle orecchie e mi addormentai di nuovo. Mi svegliò un silenzio lievemente increspato dalle voci degli uccelli e il caldo del sole.
L’indomani incontrammo l’esercito tedesco. Ci trovavamo a Odrzywołek, a 43 km da Varsavia. Dopo esserci nascosti nei cespugli al margine della strada, tornata un po’ di calma, fuggimmo di corsa verso il podere più vicino. Mamma ricordò per sempre l’ospitalità e la generosità di questi contadini sconosciuti che ospitarono noi e altra gente che scappava da Varsavia. Era settembre e c’erano prugne e pere in abbondanza, ogni tanto la padrona di casa ammazzava quattro cinque colombi per fare un brodo per tutti. I tedeschi arrivarono durante le due settimane che passammo lì. Poi, nonostante l’occupazione e le strade piene di militari tedeschi, il capofamiglia corse il rischio di portarci dalla zia Mania con il suo carro.
Tornammo a Varsavia quando tutto era finito.
Il mio quartiere era irriconoscibile: al posto delle case di legno note alla memoria s’innalzavano comignoli neri, tristi grucce di cucine che non c’erano più. Sulle case arse, sulle ceneri, si stendeva pietosamente una bianca coltre di neve.
Durante tutte le successive incursioni aeree – e non saprei dire quante furono né la provenienza, dato che allora la Polonia era terra di nessuno su cui s’incrociava il fuoco dei tedeschi, dei russi e degli alleati – chiedevo sempre a mia madre il permesso di avvolgermi nella sua pelliccia ormai consunta. Lì mi sentivo nella bambagia e il conforto fisico era talmente rassicurante che mi sentivo indifferente alla morte.
A tutti i miei coetanei il pensiero di una morte onnipresente era diventato familiare. Una bomba cadde nelle vicinanze e uccise ben otto persone, disintegrandole in minuscoli frammenti di carne. I bambini del quartiere andarono a vedere quel macello terrificante. Io no, a me dispiaceva anche per la carcassa del cavallo ammazzato e abbandonato in mezzo alla strada, tormentato anche da morto da mosche insaziabili.
Sapevo della morte, ma non volevo vederla.